sabato 15 marzo 2008

IL SUO VERO NOME

Leggo Charles D’Ambrosio, Il suo vero nome.

Kurt, un ragazzino di tredici anni, accompagna a casa gli ospiti ubriachi quando le feste di sua madre finiscono. Il padre faceva il medico in Vietnam ed è morto suicida, dilaniato dalla spaccatura tra il suo mondo - la ricca borghesia americana, le estati a Long Island, i tradimenti e i divorzi e i secondi matrimoni - e il mondo che ha visto in Indocina, i corpi che non ha potuto curare. La madre, per reazione al suo ruolo di vedova, è diventata la regina della costa: dà una festa alla settimana e ogni volta beve troppo, ride a voce troppo alta, balla fino a troppo tardi con i mariti di qualche altra donna. Al piano di sopra Kurt cerca di dormire. Una notte, come al solito, viene chiamato da sua madre: c’è la signora Gurney che non si sente bene, bisogna accompagnarla a casa. E così Kurt si alza, prende sottobraccio la donna ubriaca e parte per la sua missione. Superare un chilometro di spiaggia che si rivelerà infinito, ascoltando le confessioni della donna, guardandola spogliarsi e vomitare, subendo perfino un tentativo di seduzione prima di convincerla ad andare a dormire. Poi torna a casa, ma la festa è ancora in pieno svolgimento e lui non ha voglia di farne parte. Sa che non riuscirà più a dormire. Allora si siede fuori, sull’altalena, e rilegge una lettera che suo padre scrisse a sua madre dal Vietnam. “Per me, se non altro, è un sollievo sapere che c’è qualcuno, lontano lontano, che non può veramente capire, e spero che non possa capire mai”.

È il racconto La Punta, forse il migliore del libro. L’altro mio preferito si intitola Lirismo ed è diviso in due parti. La prima sembra ispirata a un classico del racconto americano, Il grande fiume dai due cuori: è ottobre e Potter ha affittato un bungalow nel bosco per qualche giorno. Vuole stare un po’ tranquillo con la sua ragazza, Jane, per recuperare un rapporto consumato. Ma Jane fa amicizia con i vicini, un gruppo di cacciatori ubriaconi, e così la coppia viene invitata a una grigliata: quella sera Potter beve troppo e il giorno dopo si ritrova a pescare, cercando di smaltire la sbornia e la gelosia, e a pensare alla ragazzina di un’estate lontana. Il fiume, in qualche modo, ha il potere di dargli pace.

Se la prima parte è un omaggio a Hemingway, la seconda gravita dalle parti di Carver. Adesso è inverno, è appena passato il Natale e Potter è solo in casa. Non ci vuole molto a capire che Jane l’ha lasciato. Lui cuoce due patate al forno, le avvolge nell’alluminio ed esce in mezzo alla neve: troverà un barbone con cui dividere le sue patate. Poi tornerà a casa e sarà di nuovo solo come prima. Ci sarà da disfare l'albero di Natale e trascinarlo giù in strada, perché la nettezza urbana se lo porti via.

Ecco una cosa da dire dei racconti di Charles D’Ambrosio: hanno il ritmo e lo stile del grande classico, e una struttura che non obbedisce a nessuna regola. A un certo punto della storia, dove uno scrittore con la testa sulle spalle capisce che è il momento di chiudere il cerchio, lui parte verso un’altra direzione, scrive altre dieci pagine e poi lascia tutto lì, come se si fosse alzato per rispondere al telefono. Invece il racconto è proprio finito. E se questa stranezza alla prima lettura ti disorienta, poi cominci a capire che è una scelta, il modo di D’Ambrosio per catturare la vita: che non chiude, non obbedisce a strutture drammatiche, ma a un certo punto semplicemente gira e se ne va da un’altra parte.

La seconda cosa che mi colpisce al cuore è la disperazione dei suoi personaggi. Io non ho mai capito chi definiva Carver uno scrittore deprimente, perché mi è sempre sembrato un ottimista: la vita dei suoi eroi andava a rotoli ma loro restavano in piedi, versavano ancora un po’ d’acqua nel whisky e aspettavano l’alba - magari pensando al culo di una cameriera, o progettando di andarsene in California. D’Ambrosio è molto più vicino a Richard Ford, un altro maestro della “scuola del nord-ovest”, uno per cui non c’è redenzione. Qui i personaggi muoiono suicidi o consumati da un tumore, sono alcolizzati o fanatici religiosi, impazziscono perché la figlia di due anni annega in un abbeveratoio. Tutti, come D’Ambrosio, hanno ricevuto un’educazione cattolica e pagano il prezzo della sua morale, fatta di peccato, giudizio e punizione.

Charles D’Ambrosio è nato a Seattle e vive a Portland, Oregon. In dodici anni ha scritto due raccolte di racconti. Io l'ho conosciuto all’uscita dell'altro libro, Il museo dei pesci morti, che minimum fax ha tradotto e pubblicato un paio d’anni fa. È un uomo grande e grosso e sembra buono. I ricordi di quella sera sono offuscati dalle grappe bevute insieme: abbiamo parlato a lungo dei maestri, i nostri maestri pescatori o cacciatori. Hemingway, Carver, Ford. Gente che cercava di scrivere buone storie e prendere grossi pesci. Quelli di Charles sono vivi e tirano forte, puntando sempre verso monte, come i salmoni.

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Ora Potter allungò una mano e strizzò la coscia di Jane.

“Tu te lo ricordi il tuo primo bacio?”, le chiese.

“No”, disse lei. “Per la verità no”.

Voleva essere solo una presa in giro, ma la risposta brusca lo sorprese: in quel momento lo stato d’animo di lei era completamente diverso.

Qualche goccia leggera colpì il parabrezza. Si accesero i tergicristalli, che disegnarono due palpebre sul vetro. L’ultima luce del giorno faceva risaltare le sagome delle montagne. La macchina seguiva dolcemente le curve, dondolando, rigirandosi, scendendo. La pioggia cadeva più forte e i tergicristalli scandivano il tempo, mentre Potter tornava a immaginare il suo primo bacio, la notte che scendeva e la paura che l’aveva tormentato per tutta la strada fino a casa. Nei suoi ricordi la paura era sbiadita, o almeno stava sbiadendo. E il pesce? Quello che gli restava era una vibrazione sulla lenza, un tremito nella mano, il ricordo di un incontro con il nulla, quasi, che avveniva e svaniva in un unico istante, e cominciò a riassaporarlo più e più volte, ascoltandolo come se fosse una musica. Dopo un po’ Jane alzò il volume della radio e non poterono più parlare.

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Charles D’Ambrosio, Il suo vero nome

(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2008)

sabato 8 marzo 2008

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI

Leggo Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi.

I numeri primi hanno un grande fascino per i matematici. La loro bellezza risiede soprattutto in questo: non esiste un sistema per trovarli che non sia prendere i numeri naturali e controllarli uno per uno. Due dei più celebri problemi aperti nella matematica moderna - l’ipotesi di Riemann e la congettura di Goldbach - riguardano proprio la loro frequenza: più si procede sulla linea dei numeri naturali, più i numeri primi si diradano, ma senza che sia possibile trovare nessun tipo di regolarità. Tutte le armi a disposizione dei matematici, dall’aritmetica dei tempi di Euclide allo studio delle funzioni complesse, falliscono contro questo nemico antichissimo e misterioso. I numeri primi. Una volta si usavano nelle formule magiche. Di loro sappiamo solo che non finiscono mai: nessuno è l’ultimo, nessuno il più grande.

I gemelli sono numeri primi separati da un solo numero pari: come 17 e 19, 41 e 43, 59 e 61. Coppie di individui simili, persi nell’infinità dei numeri naturali, tanto vicini da sfiorarsi ma abbastanza lontani da non riuscire a toccarsi mai. Alice e Mattia sono due ragazzi così, fatti uno per l’altro eppure incapaci di condivisione, destinati alla solitudine dai loro demoni e da un trauma che li ha segnati durante l’infanzia. Alice ha perso l’uso di una gamba su una pista da sci, rischiando la morte per assideramento all’età di sette anni. Mattia ha abbandonato in un parco la sorellina, sofferente di disturbi psichici, per andare a una festa di classe: la bambina non viene più ritrovata e Mattia dovrà convivere con questa colpa per il resto dei suoi giorni. Al liceo i due ragazzi si incontrano. Entrambi stanno attraversando un’adolescenza durissima. Alice soffre di anoressia, mortifica il suo corpo come per punirlo per quella gamba rigida e fonte di umiliazioni. Mattia il corpo lo ferisce, tagliandosi i palmi con qualsiasi oggetto acuminato gli capiti in mano. È inevitabile che si riconoscano, e cha nasca tra loro un’amicizia. Il romanzo li segue fino all’età adulta: Mattia diventerà un brillante matematico, sarà assunto come ricercatore in un’università del Nord Europa, mentre Alice diventerà una fotografa di matrimoni. Ma nessuno dei due guarirà mai dalla propria malattia. Si attireranno a vicenda e si respingeranno, si ameranno eppure resteranno lontani. Come numeri primi gemelli, simili e per sempre soli.

Paolo Giordano ha 26 anni, è un fisico torinese e racconta di avere scritto questo suo primo romanzo nel tempo libero. Il libro ha l’urgenza delle storie che vogliono essere raccontate, e perciò chiedono il sacrificio delle notti e dei fine settimana, e non lascia spazio alle questioni di stile. In poche settimane è diventato un caso, montato in silenzio e senza pubblicità: perché ha il potere evocativo dei grandi romanzi di formazione. Quelli che ti risuonano dentro, risvegliando il ragazzo che eri. È un libro semplice e profondo, e non ha nessun bisogno di spiegarti di cosa soffrono Alice e Mattia: il motivo per cui lei vuole morire di fame, per cui lui sa di essere vivo solo quando sente dolore, è qualcosa che conosciamo anche noi. È l’ospite che abbiamo cacciato di casa, e che ogni tanto torna a bussare alla nostra porta. È il demone di cui qualcuno non si libera mai.

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Mattia lo sapeva cosa c’era da fare. Doveva andare di là e sedersi di nuovo su quel divano, doveva prenderle una mano e dirle non dovevo partire. Doveva baciarla un’altra volta e poi ancora, finché si sarebbero abituati a quel gesto al punto di non poterne più fare a meno. Succedeva nei film e succedeva nella realtà, tutti i giorni. La gente si prendeva quello che voleva, si aggrappava alle coincidenze, quelle poche, e ci tirava su un’esistenza. Ormai l’aveva imparato. Le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante. Stavolta li riconosceva: quei secondi erano lì e lui non si sarebbe più sbagliato.

C’era stato un tempo in cui, seduto sul letto insieme ad Alice, poteva percorrere la stanza di lei con lo sguardo, individuare qualcosa su uno scaffale e dirsi gliel’ho comprato io. Quei regali erano lì a testimoniare un percorso, come bandierine appuntate alle tappe di un viaggio. Lei li conservava con cura, trovando loro una posizione evidente, perché a lui fosse chiaro che li aveva sempre sotto gli occhi. Mattia lo sapeva. Sapeva tutto quanto, ma non riusciva a muoversi da dov’era. Adesso intorno a lui non c’era un solo oggetto che riconoscesse. Guardò il proprio riflesso nello specchio, i capelli scombinati, il colletto della camicia un po’ storto, e fu allora che capì. In quel bagno, in quella casa come nella casa dei suoi genitori, in tutti quei luoghi non c’era più nulla di lui.

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Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, Mondadori 2008